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L'Italia sempre peggio nella classifica europea: dai 29 anni nel 1991 si è passati ai 32 del 2011. Il crollo delle nascite nella UE legato alla recessione. Come rendere compatibile la vita lavorativa con quella familiare.
ROMA - Prima anni spesi per uscire dal labirinto universitario, poi anni persi in un mercato del lavoro che non c'è. Il tutto con il peso di uomini mammoni, poco inclini ad assumersi le responsabilità che una famiglia comporta. Risultato: le donne italiane fanno i figli sempre più tardi. Secondo l'Istat negli ultimi 20 anni l'età media del parto è cresciuta notevolmente, passando dai 29,1 anni del 1991 ai 31,4 anni nel 2011 - con punte di 31,8 nelle regioni del centro. Un dato che pone il nostro Paese in cima alla classifica europea, al pari della Svizzera e poco sotto la Spagna e l'Irlanda, contro una media europea ferma a circa 30 anni.

Molto incide anche la crisi economica. Per mantenere un figlio servono soldi, ma per guadagnare soldi bisogna avere un lavoro. Così, in un'Europa in cui la recessione avanza e la disoccupazione colpisce soprattutto i più giovani, nascono sempre meno bambini, come sostiene uno studio pubblicato dall'Istituto Demografico di Vienna che evidenzia la stretta relazione tra l'inizio della crisi economica e il crollo delle nascite nell'UE. Secondo i ricercatori austriaci, "a periodi di recessione seguono spesso uno o due anni di riduzione delle nascite", e non sorprende, dunque, che i Paesi europei con la fertilità più bassa siano oggi quelli del sud, come l'Italia, che risentono maggiormente della crisi.

 

A tamponare l'emergenza, interviene lo Stato sociale. Nel 2006 ben una donna su nove è uscita dal mercato del lavoro in seguito alla maternità (fonte: indagine Isfol, 2007). Per fortuna, il decreto legislativo n. 115 del 23 aprile 2003 ha esteso il diritto al congedo parentale e alla tutela previdenziale alle lavoratrici autonome: "Alle madri di bambini nati a decorrere dal 1° gennaio 2000, è esteso il diritto al congedo parentale limitatamente ad un periodo di tre mesi, entro il primo anno di vita del bambino".
È questo un esempio di "politica per la conciliazione", misure che lo Stato adotta per tentare di rendere compatibile la sfera familiare con quella lavorativa, aiutando ciascun individuo nel difficile compito di vivere al meglio il doppio ruolo che è chiamato a svolgere: quello produttivo e quello legato alla cura dei figli e dei genitori anziani, che in gran parte ricade sulle donne. Il calo delle nascite è in un rapporto evidente con la frattura lavoro/famiglia:spesso la difficoltà a conciliare le due sfere, già di ostacolo ai percorsi di carriera delle donne, diviene anche un freno al desiderio di maternità. Difficile, però, fare stime statistiche . L'Istat (ricerca 2012) ci dice comunque che le donne fanno meno figli di quanti ne vorrebbero: il numero medio desiderato da dirigenti/imprenditrici e libere professioniste/lavoratrici autonome è di 2,1, ma in media ne hanno  avuti  rispettivamente 1,4 e 1,6. Si considerino poi le statistiche sul numero di donne che lascia il mercato del lavoro per motivi familiari, ovvero il 30% delle madri, contro il 3% dei padri".

Conciliare lavoro e famiglia non può essere un problema esclusivo dell'individuo, ma deve essere preso in carico dalla società, dal mercato del lavoro e dallo Stato.
Le dipendenti pubbliche, come le dipendenti del privato, sono tutelate dal decreto legislativo 151/2001, che garantisce, tra l'altro, il congedo di maternità e di paternità, i congedi parentali, il così detto "allattamento", il congedo per malattia dei figli e i congedi per eventi e cause particolari. L'altro riferimento normativo da tenere presente è la Legge 104/1992 (per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate). In Italia  la norma cardine dell'ordinamento in tema conciliazione è l'articolo 9 della legge 8 marzo 2000, n. 53 (la così detta 'legge sui congedi parentali') che prevede di finanziare aziende che presentino progetti a favore delle/dei propri dipendenti, per aiutarli a conciliare famiglia e lavoro. La misura, gestita dal Dipartimento per le politiche della famiglia, ha finanziato per oltre 37,5 milioni di euro, dal 2007 ad oggi, progetti che hanno introdotto nelle aziende beneficiarie strumenti quali il telelavoro, la flessibilità degli orari, o servizi salvatempo, come ad esempio il nido aziendale o il maggiordomo aziendale (una figura che svolge per i dipendenti commissioni di vario tipo, che essi  altrimenti avrebbero svolto dopo l'orario di lavoro, sottraendo ulteriore tempo ai figli).
L'art. 9 è rivolto anche alle lavoratrici autonome e alle libere professioniste. Per queste ultime prevede infatti finanziamenti dedicati a retribuire una figura che le sostituisca al lavoro per massimo 12 mesi mentre loro sono a casa dopo una maternità o un'adozione. In questo caso l'art. 9 sostiene soggetti che, diversamente dalle lavoratrici dipendenti, non hanno tutele e rischiano quindi un calo del reddito. Va detto che, oggi, l'art. 9 non ha copertura finanziaria e il Dipartimento quindi non pubblicherà nuovi Avvisi di finanziamento, salvo diverse determinazioni del Governo entrante. Fin qui si è trattato di una misura sperimentale, e come tale si è applicata esclusivamente a chi, rispondendo agli avvisi di finanziamento del Dipartimento, è stato ammesso tra i beneficiari dei contributi".Spesso una maternità si verifica in una fase della vita in cui la giovane lavoratrice ancora non ha consolidato il proprio studio professionale o la propria attività imprenditoriale, quindi in una situazione di potenziale fragilità finanziaria. A complicare le cose, un mercato del lavoro pensato per gli uomini, di massima reperibilità basato sulla premessa "anyplace, anytime", che non contempla tempo per la cura dei figli piccoli o dei genitori anziani. Le lavoratrici sulle quali ancora oggi ricadono questi compiti familiari, devono quindi trovare soluzioni individuali che permettano loro di osservare i propri obblighi professionali senza trascurare quelli familiari, in un contesto sociale in cui le reti familiari sono spesso inesistenti. Per cui le donne non possono delegare la cura dei figli ai nonni e i nidi sono insufficienti. Le madri vivono pertanto divise tra ufficio e famiglia, in perenne conflitto tra doveri professionali e domestici, costrette ad acrobazie e difficili equilibrismi. Sono schiacciate dai tempi di lavoro (extradomestico e familiare) e a farne le spese è il loro tempo libero: per le occupate 2 ore e  37 minuti di tempo libero contro 3 ore e 36 dei loro partner. Sotto il profilo della conciliazione  occorrerebbe mettere a sistema misure ad hoc e contestualmente operare una revisione dei contratti collettivi di lavoro, introducendo nelle aziende private sia forme di flessibilità oraria che innovazioni sul piano dell'organizzazione del lavoro. Il 2014 sarà l'anno europeo della conciliazione, a dimostrazione di quanto questo tema sia oggi di attualità e richieda misure ulteriori rispetto a quelle esistenti. Resta, infine, da dire che il decreto legislativo 151/2001, lasciando le lavoratrici autonome e le libere professioniste sostanzialmente prive di sostegni forti sul piano della tutela della maternità, pone un problema che va affrontato. È una lacuna della nostra legislazione che non prevede un'adeguata protezione sociale nei confronti delle lavoratrici autonome né in caso di maternità né in caso di assistenza a figli e/o genitori disabili.
“Sara Ficocelli”   da “La Repubblica “ 06 maggio 2013