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Dall'India con nomi falsi e finte famiglie.
"Noi venditori di rose, schiavi bambini"

PALERMO - Rashid è un nome di fantasia. Falso, come quello sulla sua carta d'identità. Come i nomi delle migliaia di suoi connazionali approdati in Italia dallo Sri Lanka o dal Bangladesh e costretti a vendere rose e cianfrusaglie nelle piazze di Palermo. Minorenni affidati a padri che non sono i padri, che vivono come figli ma che non sono i figli. Rashid porta il nome del suo finto padre.

Quello vero lo ha perso 7 anni fa, quando lasciò lo Sri Lanka e la sua famiglia a bordo di un aereo, accompagnato a Palermo da un uomo che prometteva sogni, scuola e un futuro migliore. Arrivato in Sicilia nel luglio del 2005, dopo appena un mese, e non ancora compiuti i 9 anni di età, cominciò a vendere rose per le vie del capoluogo.
"Ricordo - racconta - che il mio villaggio era molto povero i miei genitori non avevano i soldi per assicurarmi un futuro. Un giorno un amico di mio padre disse che se fossi andato con lui in Italia, mi avrebbe dato la possibilità di studiare. Io ero felicissimo. Quando arrivammo a Palermo però quell'uomo iniziò a chiamarmi con il suo cognome. E mi presentò a tutti come suo figlio". E in effetti sul permesso di soggiorno, il suo cognome è sparito, sostituito da quello del suo finto padre. Rashid è una sua proprietà. Come i circa 200 venditori di rose bengalesi, tamil e cingalesi di Palermo.
Quello dei nomi fittizi è oramai un fenomeno molto diffuso tra le comunità dello Sri Lanka e del Bangladesh. I ragazzi lavorano fino a quando non avranno pagato il costo del biglietto e dell'ospitalità. In alcuni casi però i minorenni vengono letteralmente prestati dalle famiglie a terzi per saldare debiti pregressi. Il costo del loro prestito varia dai 5mila ai 40mila euro per ogni figlio.
Ogni "famiglia" tiene in casa dai 3 ai 10 ragazzini. In cambio di vitto e alloggio, ogni notte, dal lunedì alla domenica, l'esercito dei venditori di rose sgattaiola dai vicoli bui di Piazza Olivella, nel cuore della città. Lavora fino all'alba per racimolare, quando va bene, 10 euro a sera. "Mi danno - racconta Rashid - 60 rose ogni 5 giorni: devo venderle tutte e portare a casa almeno 50 euro. Se non lo faccio non mi lasciano entrare e rimango per strada".
Rashid oggi ha 16 anni e un sogno nel cassetto: ritornare nel suo Paese. "Mi hanno assicurato - spiega - che a 18 anni sarò libero, ma sono stanco di aspettare. Vorrei continuare gli studi, ma frequento ancora la terza media. Mi hanno bocciato diverse volte sempre per le assenze. Spesso torno a casa alle 5 del mattino e poi è difficile svegliarmi". Tamil e bengalesi rappresentano oltre il 30 per cento degli stranieri residenti a Palermo. Sono dei gruppi  organizzati in clan con una struttura piramidale ed estremamente patriarcale. Arrivano dalle regioni più povere dove il 20 per cento dei bambini ancora oggi è costretto a lavorare dall'età di 6-7 anni".
Nel 2005 un giovane venditore di rose, appena 13enne, fu convinto da un gruppo di assistenti sociali a denunciare i suoi zii, Kim e Uddin Roish, originari del Bangladesh e residenti a Palermo, che lo costringevano a vendere rose 7 giorni su 7 in cambio di vitto e alloggio. Il processo andò avanti fino allo scorso febbraio quando i giudici d'appello pur optando per l'assoluzione dei due dall'accusa di riduzione in schiavitù, condannarono Uddin a sei mesi di reclusione per falso. Secondo i magistrati, i due avevano organizzato l'arrivo in Italia del bambino facendolo passare per il figlio di Uddin Roish.                                                                                                                                           Il sostituto procuratore di Palermo Ennio Petrigni che ha rappresentato l'accusa in quel processo descrive due stadi di falsificazione: "L'espatrio dei minori avviene in genere con la falsificazione dello stato civile dell'individuo. La prima falsificazione viene fatta nelle ambasciate italiane nei Paesi d'origine dove gli sfruttatori presentano, carte alla mano, il ragazzino come figlio proprio. La seconda avviene in Italia, con la richiesta del permesso di soggiorno, reiterata ogni anno con il rinnovo".
Ribellarsi per i minori non è semplice, anche perché le carte, seppur false, dicono che i finti padri sono gli unici garanti della tutela del ragazzo in Italia. E non solo: Rashid teme per la sua famiglia rimasta nello Sri Lanka. "Ho paura per i miei genitori - confessa - non so cosa fare. Quando li sento al telefono vorrei dirgli tutto. Ma lui, l'uomo che mi tiene in casa, mi sta sempre accanto durante le chiamate". La strategia delle minacce in traffici di questo tipo  purtroppo funziona sempre. Sono gli stessi ricatti messi in atto nel mercato della prostituzione. Le vittime sanno che i loro sfruttatori sono realmente capaci di far del male alle loro famiglie e alla ribellione preferiscono il silenzio.
Dalla testimonianza di Rashid e da quelle raccolte nel corso del processo Roish, emergono i ritratti di immigrati perfettamente integrati, con un lavoro stabile e il racket come seconda attività. Hanno mogli e figli propri, anche se questi ultimi non sono tenuti a vendere le rose. Acquistano i fiori a metà prezzo dalle bancarelle al Cimitero di Sant'Orsola. E per nascondere lo sfruttamento dei loro "finti figli", non gli fanno mancare libri e qualche volta regali. Poi, con i soldi intascati in Italia, investono nei loro Paesi. Quello di Rashid, ad esempio, utilizza il denaro per costruire di residence e appartamenti nello Sri Lanka. E, come fanno in molti, paga un pizzo perché i suoi ragazzi possano girare per le strade. Lo intuisce Rashid: "Mio padre incontra palermitani con i quali discute". Gli immigrati pagano il pizzo o spesso le mafie fanno la cresta sui loro profitti. E il pm Petrigni sottolinea: " la criminalità organizzata marca anche così il territorio".

 

(Enrico Bellavia  e Lorenzo Tondo)

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