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Giuseppe Ragnatela

Giuseppe Ragnatela

“Un caffè e una Redbull prima di entrare in piscina per la gara”: inizia così il dossier che “La Repubblica” ha dedicato al male oscuro che avvelena lo sport: il doping. Cedono alle lusinghe del doping non solo i “campioni” per conquistare o mantenere il primato ma anche e, forse soprattutto, dilettanti di ogni tipo e di ogni età. L’uso delle sostanze chimiche, legali o proibite, è diffuso anche nello sport amatoriale: un” mercato” da 750 milioni. In questo “gonfiarsi” fino a esplodere rileggiamo l’antica favola della rana che vuole farsi bue. La  diffusione del doping rispecchia la debolezza di tutti: la paura di non farcela è l’ossessione della nostra società competitiva, l’applauso degli altri rappresenta per molti  l’unica misura del proprio valore. I bambini e gli adolescenti subiscono le ossessioni e la mancanza di equilibrio degli adulti: genitori, allenatori, dirigenti e medici sportivi. “Nelle piscine chi si prepara ai campionati trova allenatori che cominciano a dare integratori salini. In certi casi sono gli stessi genitori a somministrare sostanze, pensando che i propri figli siano campioncini. E sono disposti a tutto”. I giovani atleti gareggiano lontani da riprese televisive e senza medaglie olimpiche da conquistare e nonostante questo “qualcuno” diffonde la convinzione che “barare” non è sbagliato.  Con quali strumenti è possibile arginare la diffusione della cultura dell’aiutino, lecito o illecito? Cosa raccontare ai genitori disposti  a somministrare sostanze ai propri figli che dovrebbero gareggiare con i coetanei  solo per la gioia di farlo? Come insegnare che “barare” è sbagliato?